La dimensione spirituale è strettamente intrecciata con la proposta educativa dell’AC, ne è il cuore pulsante: i percorsi, le proposte, i processi posti in essere dall’associazione sono orientati “perché Cristo sia formato in noi” (il titolo del Progetto Formativo, la “carta costituzionale” dell’AC). Come vivere creativamente la sequela di Cristo oggi? Quali caratteristiche privilegiare?
Afferma il Progetto Formativo: Oggi viviamo una stagione nuova della Chiesa italiana e del nostro Paese. Questo è tempo di missione. I cristiani sono chiamati a farsi carico di un nuovo annuncio del Vangelo e devono affrontare la prova di una fede che per nessuno può mai essere data per scontata. La comunità e in essa l’associazione devono trovare parole e forme nuove per comunicare il Vangelo ed entrare in dialogo con un mondo in cambiamento.
La spiritualità per ogni associazione è curata dalla figura dell’assistente.
Conoscere l’AC, per un assistente, non significa provenire dall’AC, ma capirne il carisma, le scelte di fondo e le linee della formazione. Una conoscenza oggi più che mai necessaria, perché il cammino del rinnovamento associativo, intrapreso in questi anni, sta investendo ogni gruppo parrocchiale e può generare confusione o disorientamento.
Perché i sacerdoti conoscono l’AC la via migliore non è regalare un libro, ma promuovere la qualità della vita associativa parrocchiale, curando in modo particolare il centro della formazione: la spiritualità.
Di particolare importanza e centralità risulta la proposta associativa che ogni anno viene indicata dal Centro Nazionale.
L’attenzione per l’anno associativo 218-2019 fa riferimento al brano di Luca 10,38-42 e ha per titolo
Di una sola cosa c’è bisogno
di seguito la riflessione di don Massimo Orizio pubblicata su ACNotizie di Dicembre 2018
Nella figura di Maria, seduta ai piedi di Gesù, contempliamo il miracolo dell’avvento divino: Dio parla!
La Parola è “rivelazione”, uno svelarsi che vela, un ostendersi nel ritrarsi: un insieme di apertura e nascondimento. La Parola eterna entra così nelle parole del tempo, ma l’avvento di Dio non è un’esibizione senza riserve, non è il consegnarsi alla presa del mondo.
Mettersi ai piedi di Gesù non significa ricevere una manifestazione totale, un’apertura incondizionata senza riserve. Dio si rivela, si dice e, nello stesso tempo, si nasconde perché è il Dio della promessa, dell’esodo e del Regno. Il Natale ci racconta una rivelazione che non è visione totale, ma“Verbo”, che viene nel silenzio ed ad esso si apre, rimando a profondità abissali, quelle del cuore umano e di Dio.
L’obbedienza della fede non è altro, perciò, che l’ascolto profondo di “ciò che sta sotto” e “oltre” rispetto alla parola immediatamente udita. Si accoglie veramente soltanto la parola quando la “si supera”, le si “obbedisce”, si entra nel movimento di apertura e nascondimento, di incontro tra umano e divino senza che l’uno sia risolto nell’altro.
Obbedisce alla Parola chi “trasgredisce” (trans-gredi=andare oltre), chi non si ferma alla lettera, ma, scavandola e lasciandosi scavare, accede ai sentieri del silenzio. Accogliere la Parola vuol dire lasciarsi condurre dallo Spirito verso l’abisso di Dio, credere ad essa significa camminare e adorare, meditarla invita all’estasi (ek-stasis=uscire da sé) ovvero al silenzio come spazio per il movimento di proposta-risposta: cos’altro è la preghiera se non questo muoversi “in” Dio, nell’interstizio silenzioso della ricerca?
Dove la rivelazione è accolta, nasce la fede: essa non è riposo tranquillo, non possesso o certezza, ma lotta, ascolto del silenzio (1Re 19). La fede non è la risposta tranquilla alle nostre domande, ma la sovversione di ogni nostra domanda. Dio non è risposta, è custodia.
In Lui, soltanto in Lui, stanno l’ultima parola e l’ultimo silenzio, anche se nella nostra storia ci è dato già di accoglierli nella speranza. Perciò il credente è, si potrebbe paradossalmente dire, nient’altro che un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Se così non fosse, la sua fede sarebbe una rassicurazione, una polizza cieca contro le paure della vita. La fede non è possesso, un possesso che lascia l’uomo prigioniero di sé, ma è un continuo consegnarsi a Dio, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di sperare e di amare.
Credere è decidere di “mettersi ai piedi”, è “Im-pegno” (dare in pegno la vita), consegna nel buio della notte alla promessa che ci spinge all’oltre, all’altro che ne porta i segni.