“En archè o logos” (In principio il Verbo/la Parola) recita, nel prologo del suo Vangelo, Giovanni. È noto che l’espressione “archè” indica sia un inizio temporale che il fondamento, il fondo di ogni cosa: “archè” è inizio e radice.
Nel cuore della notte di Natale risuona il Vangelo della nascita, promessa di uno sviluppo abbondante, allusione a frutti generosi, apertura alla vita. Dio, inviando suo Figlio, ci rivela chi siamo: figli di una storia umana fatta di persone e generazioni. Dio manda suo Figlio per far essere, per far accadere: siamo nati, come dice Anna Arendt, per incominciare.
La via generativa diventa la modalità comunicativa di Dio. Il Suo movimento incessante di ricerca dell’uomo, che chiamiamo “storia della salvezza”, che culmina nel Suo donarsi nel Figlio, assume la tonalità del dare inizio, del prendersi cura, del far crescere, del liberare, dell’aprire strade di futuro.
Questo dinamismo va riconosciuto oggi, nel nostro tempo come pratica di fede, come affidamento esistenziale che qualifica il nostro confidare nel Signore Gesù. Il Natale ci “pro-voca” (chiama a, chiama verso) allo statuto del possibile, come dicono Magatti e Giaccardi (La scommessa cattolica, Mulino 2019). Può esistere un avvenire capace di aprire ad un futuro inaspettato? Come pensare e praticare un possibile esistenziale capace di far nascere qualcosa di inaudito e inatteso?
In questa prospettiva la vita cristiana è aprirsi a un futuro, aprirsi per far fiorire la vita in sé ed oltre sé: uno sbilanciamento che chiamiamo “lettura dei segni dei tempi”. Con questa espressione di Mater et Magistra e di Gaudium et Spes si evoca la capacità profetica insita nella vocazione battesimale, si invita a diventare autori, a prendere l’iniziativa, ad abitare la tensione tra tradizione ed innovazione.
“La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve” (EG 115). La lettura dei segni dei tempi richiama tre principi e indica due luoghi liminali. Dio che si fa uomo ci costringe all’esperienza di vita (principio dell’esperienza), che si configura come relazione con Dio attraverso l’evento di Gesù (principio della manifestazione). Dentro questa relazione, l’uomo è sollecitato ad una risposta libera, ad una disposizione di fiducia, ad un coinvolgimento che si espone ad agire a beneficio di altri (principio del senso).
I due confini, o luoghi liminali, sono la marginalità e il mistero. Il primo, che papa Francesco chiama anche “scarto”, evoca la scomodità dell’altro, la ferita di ogni pretesa di autosufficienza, l’apertura che impara ad affezionarsi, l’incontro sorprendente che ci può liberare. Il secondo confine è quello della preghiera, il cercare l’infinito nella finitezza della condizione umana. I gesti della preghiera sono memoria e dialogo e scandiscono la vita umana e la sua storia, rinnovano, rianimano, riannodano la nostra vita e le nostre comunità.
A Natale “Dio viene a trovare, con il linguaggio della sua umanità, le mani, i volti e i corpi che egli orienta verso di sé e che rispondono ai suoi” (De Certeau).
di don Massimo Orizio